I genovesi che frequentavano le elementari negli anni Sessanta ricordano che la parlata locale era considerata come fumo negli occhi da genitori ed educatori, che la temevano quale ostacolo all'apprendimento della lingua italiana, e anche, ma forse soprattutto, quale serbatoio di insulti, scatologie e allusioni sessuali. In realtà la lingua genovese può contare, fin dal Medioevo, su una tradizione lirica raffinatissima e di impegno politico e sociale; basti pensare a un Barnaba Cigala, a un Giangiacomo Cavalli, fino a Edoardo Firpo, o alle atmosfere poetiche e mediterranee di "Creuza de mâ" di De André, mentre nel parlare comune il turpiloquio è presente, certo, ma come in ogni altra lingua. Oggi, una sessantina d'anni dopo, ci troviamo in una situazione curiosa: la lingua genovese è quasi scomparsa, ma le parolacce, soprattutto italiane, sono ampiamente sdoganate, con il classico "bellin" che torreggia su tutte le altre, assurto ormai ad emblema di genovesità. Questo insultario per i genovesi non completamente immemori della lingua degli avi, sarà quasi un album di famiglia, mentre per i foresti potrà rappresentare un viaggio, per così dire, "alternativo" alla scoperta di un paese e di un linguaggio esotici.