Il libro segue il dibattito sviluppatosi sulla rivolta di Reggio Calabria tra la base reggina e i vertici della Democrazia Cristiana, partito di maggioranza relativa all'interno del governo di centrosinistra, e del Partito Comunista Italiano, partito d'opposizione. Dalla coincidenza tra la richiesta del capoluogo e la tutela degli interessi della città e dalla tensione che scaturisce tra il senso di appartenenza territoriale, ossia "la regginità", e l'adesione all'ideologia dei partiti emergono le ragioni del malessere e del dissenso che si levano dalla base reggina sia della DC che del PCI durante la rivolta. Tutto ciò sullo sfondo delle controverse vicende cittadine, che influiscono molto sui giudizi finali che le varie sezioni locali dei due partiti danno sulla rivolta e sui rispettivi gruppi dirigenziali al termine delle vicissitudini. La sottovalutazione del Pci, o la "via democratica al comunismo", spiana la strada ad un crogiuolo di eversione nera, neofascismo, 'ndrangheta e massoneria deviata che s'intrecciano con lo stragismo golpista di Junio Valerio Borghese. Dal territorio delle due sponde che si affacciano sullo Stretto è partita l'idea, e si è portata avanti, di un progetto di "rivoluzione nera" e di conquista golpista del Paese. Una mistura massomafiosa e stragista che è al centro di due dei misteri più tragici del Paese: la strage di Gioia Tauro e l'incidente stradale in cui persero la vita i cinque anarchici della Baracca.