Nell'estate del 1630 le autorità milanesi ordinarono che due uomini accusati di essere untori di peste venissero mandati a morte in seguito a raccapriccianti torture. Di più: la casa-bottega di uno dei due fu demolita e sostituita da una colonna infame, accompagnata da un'iscrizione, a perenne memoria. Grazie a un lungo dibattito che prende le mosse da autori del calibro di Pietro Verri e Alessandro Manzoni, la triste vicenda del barbiere Gian Giacomo Mora resta tutt'oggi indimenticata. Negletto, viceversa, è che questo modo di fare giustizia fu piuttosto diffuso e longevo: qualcosa che riguardò gran parte dell'Europa d'età moderna (e non solo). A subire questa pena furono cospiratori, esponenti di fazioni avverse al governo, leader di rivolte locali, ma anche eretici, negromanti, assassini e delinquenti incalliti. Spesso criminali veri, altre volte solo classici capri espiatori. Attraverso la ricostruzione di decine di casi, si mettono a fuoco le categorie di reati che, nei rispettivi contesti e sulla base del crimen laesae maiestatis, le autorità cercarono di reprimere con più ferocia, nonché i rituali di giustizia e il linguaggio composito che un simile metodo di condanna sfruttava. Le colonne infami - di cui il volume presenta varie immagini - sono, al pari dei condannati, protagoniste di questa ricerca in quanto monumenti: oggetti in grado di tramandare nel tempo narrazioni e giudizi che talvolta, con l'avvicendarsi delle epoche e dei poteri, mutarono di segno.