Il doge di Venezia, per quanto chiuso in una gabbia dorata di costrizioni rituali e condizionamenti politici, fu nei secoli la massima autorità rappresentativa, quasi l'incarnazione pubblica dello Stato Marciano. Come tale, gli toccava l'onore di essere immortalato in un ritratto ufficiale da porre lungo un fregio che correva sotto il soffitto della sala del Maggior Consiglio, e più tardi della sala dello Scrutinio, in Palazzo Ducale, affinché - diceva a metà Ottocento Francesco Zanotto- «rimanesse una iconografia parlante di quegli uomini che si distinsero per sapienza, valore, giustizia, acutezza di mente[...]; con l'intendimento che la vista di quelle immagini servisse a pungolo ed emulazione ne' successori, e ne' riguardanti destasse venerazione verso la memoria». L'osservazione delle effigi, ma soprattutto l'analisi delle iscrizioni latine dei cartigli (composte in versi, per larga parte dei dogi che precedono l'anno 1500), permette di ripercorrere la parabola della storia millenaria della Repubblica attraverso le vicende e le gesta di quei personaggi, sino al mesto epilogo dei tempi ultimi.