Sin dal Concilio di Nicea II del 787, era riconosciuto che «chi venera l'immagine [sacra] venera la realtà di chi in essa è raffigurato», e che «quanto più frequentemente queste immagini sono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono innalzati al ricordo e al desiderio dei modelli originari». Questi due principi costituiscono il filo conduttore del presente saggio, nel quale l'Autore indaga sui motivi per i quali la Storia della Vera Croce dipinta da Piero, nella basilica di San Francesco in Arezzo, era ed è da «venerare; peculiarità dovuta non solo alla bellezza estetica e alla perfezione di forme e di colori, quanto e soprattutto alla «realtà» invisibile che essa «raffigura» all'animo e all'intelletto. Immaginando di inoltrarsi all'interno della basilica prima nelle vesti di un legnaiolo aretino, poi in quelle di un patrizio veneziano, e infine di un magistrato fiorentino, Mendogni propone una rappresentazione della «realtà» invisibile, con le sue sfaccettature, storiche, morali e teologiche, che, nella cultura umanistica e nell'immaginario popolare a cavallo tra Medioevo e Rinascimento, quegli affreschi dovevano rendere intellegibile a chi li «contemplava».