Nell'architettura del Quattro e Cinquecento il patriarcato veneziano si erge a protagonista, al pari delle committenze statali, patrizie, confraternali o cittadine, della trasformazione urbana della città di Venezia. Il suo ruolo, tanto determinante quanto sfuggente, a lungo rimasto escluso dagli studi, è qui definito con una particolare attenzione per il contesto, gli intrecci tra i diversi interlocutori urbani e il retroterra culturale. È nella monumentalizzazione del complesso patriarcale dell'isola di San Pietro di Castello che si coglie, in particolare, il compito affidato all'architettura nel tradurre in immagine urbana il senso di un'istituzione nata soltanto nel 1451 con Lorenzo Giustiniani. Tale complesso appare l'esito di una precisa strategia che i patriarchi del Rinascimento perpetuano, trasformando un insieme incoerente di edifici medievali in uno dei maggiori centri in città di elaborazione dell'architettura "all'antica", nel tentativo di legittimare una memoria identitaria che compensi l'assenza di una tradizione consolidata. Attraverso il coinvolgimento di artisti come Vittore Carpaccio e di architetti come Mauro Codussi, Andrea Palladio, Giovanni Grappiglia e Baldassarre Longhena, la disciplina architettonica diviene uno strumento privilegiato nell'invenzione e nella risignificazione della imago urbis, che denuncia una comunanza di obiettivi con lo Stato veneziano e soprattutto con l'élite patrizia di cui gli stessi patriarchi facevano parte.