Inquieto, eccessivo, Adolfo Wildt (Milano, 1868-1931) è il fastoso crepuscolo della scultura, se per scultura s'intende l'antica opera sul sasso, il colpo, e la pazienza della levigatura. Coltissimo e estremo anche nel virtuosismo, è l'ultimo maestro, con quel tanto di artigiano, di umile mestiere che sta nella parola, ma anche di alto e reverente. All'arte del marmo ha dedicato l'ultimo trattato e l'ultima scuola, dove accanto ai corsi d'accademia dava per prima cosa da scolpire un uovo, nocciolo di una forma esatta trasformata in senso, e stranamente analogo, anche nell'umile ripetizione dell'esercizio, a quell'"Inizio del Mondo" con cui il genio arcaico di Brancusi, cancellando in un gesto ogni storia e ogni stile, inaugurava a Parigi l'alba di un'arte nuova. Wildt, invece, a Milano salvava tutto: stile e storia, simboli e letteratura, dei, eroi, santi, celebrazione e monumento. Estraneo al mondo delle avanguardie e altrettanto a disagio nel conformismo artistico del primo Novecento, Wildt corrispose a fatica col suo tempo e quasi nulla con quelli successivi, ma è forse proprio in questo solitario anacronismo il salto che lo collega al nostro tempo: in questo suo essere tutto e senza luogo, classico e gotico, manierista e barocco, frammentario e giustapposto come le fotografie dei monumenti antichi che Aby Warburg, nella biblioteca di Amburgo, accostava allora su quelle tavole dove andava fondando un altro senso dell'arte e della storia.