Antonin Artaud, visitando nel 1947 a Parigi una grande mostra di dipinti di Van Gogh, rivede finalmente la sua condizione personale rispecchiata nella follia del pittore. L'esperienza vissuta dello squilibrio mentale, della malattia, della repressione, si trasforma per lo scrittore in un atto di accusa verso la società, che con la complicità della medicina fa dell'artista il capro espiatorio di un sistema che non tollera di essere messo in discussione. Van Gogh perciò non è un "suicida", ma è stato "suicidato" dalla società e dalla psichiatria, come per liberarsi di un corpo estraneo. E Artaud conosceva bene i metodi, le motivazioni di questa repressione, per averli subiti lui stesso. Dice infatti: "... un alienato è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e al quale ha voluto impedire di pronunciare certe verità insopportabili". Nessun vero artista può essere tollerato, secondo Artaud, in "un mondo che, giorno e notte, e sempre di più, mangia l'immangiabile, per raggiungere gli obiettivi della sua malefica volontà". Fondendo in questi testi la sua scrittura con la pittura di Van Gogh, Artaud ricrea la forza della sua pennellata e soprattutto della sua visione, restituendo all'arte del grande olandese tutta la sua carica esplosiva e rivoluzionaria.