Il ventennio che va dai primi anni '50 ai primi anni '70 è connotato da un intenso dibattito internazionale intorno a una pratica critica e operativa che si muove in una terra di mezzo tra arte e disegno industriale. Per delinearne i confini, il libro analizza l'ideologia e l'attività di movimenti e tendenze quali il MAC (Movimento Arte Concreta, fondato nel 1948), l'arte cinetico programmata, o Op art (fino al 1965) e il cosiddetto radical design della seconda metà degli anni '60 (fino al 1972). Sul piano delle realtà industriali si toccano le vicende eccezionali della Danese e soprattutto dell'Olivetti. Questi casi esemplari fanno emergere i caratteri non tanto di una certa arte della società industriale, ma dell'arte nella società industriale. Ossia della discussione su questioni inerenti all'arte in generale, agli slanci, ambiguità e contraddizioni che da sempre la connotano come luogo di manifestazione di una differenza, nel contesto di una società caratterizzata dall'egemonia culturale della scienza e della produzione in serie. Lo snodo concettuale dell'intero viaggio storico teorico è individuato nella dialettica tra forma e lavoro, e a questo riguardo assumono un ruolo centrale le riflessioni intorno all'arte cinetico programmata e all'Olivetti. Si mostra come una stessa fenomenologia si dispieghi allo stesso tempo su livelli e in ambiti differenti, offrendo spunti per un'inedita prospettiva metodologica attraverso cui riconsiderare il rapporto tra arte e contesto "extra-artistico".