Ci sono pensieri folgoranti che nessuna patina del tempo può oscurare. Ci sono scritti intramontabili che, malgrado il trascorrere degli eventi e i cambiamenti epocali, sembrano essere destinati proprio a noi, figli di un'epoca incerta alla costante ricerca di insegnamenti cui ispirarci. A questo genere si iscrivono a pieno titolo le pagine di Morris pubblicate per la prima volta tra il 1888 e il 1894, e oggi di un'attualità quasi scomoda. Scomoda perché costringe a prendere atto che l'insopprimibile e tuttavia rivoluzionario bisogno dell'uomo propugnato in queste pagine è rimasto, a più di un secolo di distanza, lettera morta. Il bisogno di aggiungere la dimensione del piacere a quel lavoro, manuale o intellettuale, sempre più declassato a pura fatica. Fatica in gran parte inutile, se si pensa che si tratta di produrre a tutti i costi e senza sosta beni di consumo spesso superflui. E vero, dice Morris, la felicità dell'uomo non nasce dall'ozio bensì dal lavoro: a patto però che questo non sia finalizzato al profitto, ma a gratificare il nostro naturale istinto a ricercare la bellezza e la piacevolezza, oltre che ad affermare la nostra dignità. "Dobbiamo cominciare a costruire la parte decorativa della vita - i suoi piaceri, fisici e mentali, scientifici e artistici, sociali e individuali - sulla base del lavoro intrapreso volentieri e con gioia, consapevoli di apportare in tal modo un beneficio a noi stessi e a chi ci sta intorno".