Il postulato di Max Weber sull'avalutatività (Wertfreiheit) della scienza è costantemente oggetto di discussione scientifica. Ancora oggi, tuttavia, circolano su di esso numerosi malintesi e fraintendimenti, che Weber ha cercato di chiarire già nel suo saggio del 1917 sul «significato dell'avalutatività». In primo luogo, Weber non nega che la scelta dell'oggetto di indagine da parte dello scienziato si basi su preferenze molto soggettive. In secondo luogo, non ha mai sostenuto che l'oggetto di indagine delle scienze sociali (ad esempio il sistema economico o quello giuridico) sia privo di valore. In terzo e ultimo luogo, il postulato dell'avalutatività non implica il nichilismo dei valori. Avendo come sfondo il dualismo tra essere e dover-essere, Weber si preoccupa più che altro di effettuare una netta e chiara distinzione tra valutazioni politiche, morali, religiose e di altro tipo da un lato e proposizioni scientifiche dall'altro. L'avalutatività (Wertfreiheit, letteralmente «libertà dal valore») è quindi soprattutto la libertà dalle valutazioni (Wertungsfreiheit). Discussioni razionali sui valori non sono affatto escluse e anzi Weber le considera espressamente possibili, ad esempio sotto forma di analisi del rapporto mezzi/fini o del controllo di coerenza/consistenza nell'elaborazione di assiomi di valore. Solo le ultime e più alte valutazioni, quelle in cima alla piramide, sfuggono al chiarimento scientifico e non possono rivendicare per se stesse una validità oggettiva. Weber prende le mosse dal «politeismo dei valori», dalla inconfutabile possibilità cioè che le valutazioni ultime divergano in modo fondamentale e inconciliabile. In definitiva, il postulato di Weber porta alla domanda circa il significato della scienza in generale, la cui risposta è "far chiarezza".