La pandemia ha creato, oltre a terrore e morte, una condizione esistenziale che potremmo definire di "altrimenti dell'abitudine". Distanza e azioni trattenute sono la cifra e la misura dei nostri comportamenti e delle nostre relazioni. Qualcosa di indicibile e smisurato ci ha portati a stare dentro e lontano. A ritirarci. La sottrazione ha fatto trovare alla voce e all'immagine altre vie per apparire, per abitare la distanza. Ma il raccoglimento e la concentrazione (dello spazio, dei ruoli, del tempo, delle relazioni) sono stati e sono, anche, una risposta al richiamo e alla tirannia del mostrarsi, del dire comunque. La pandemia ha prodotto uno stato di sofferenza collettivo che muove il linguaggio stesso a cercare una grammatica emotiva nuova, capace di dare spazio e abitabilità ad un sentire inatteso. Anche la parola non basta: dopo i primi entusiasmi definitori, a fianco di tanto parlare o tacere, anche la lingua deve coniare un modo nuovo di farsi presenti, di chiamarsi ad un tempo che sarebbe sbagliato subire soltanto sperando che passi. Lo si deve nominare. La pandemia ci sta spingendo a vivere una panpatía :siamo tutti insieme, contemporaneamente, immersi in un'estetica dell'esperienza che ci chiama, dopo lo sgomento, a fare i conti con il nostro essere tutti insieme a patire, esperire, sentire. Il sentimento della panpatía condiziona non solo il sentimento del tempo, dello spazio e del desiderio, ma impone un'etica della salvezza che deve passare dalla relazione. Una relazione con sé, con l'altro, con gli altri. Sguardo e parola sono e possono essere, ora più che mai, veicoli di presenza, spazi di incontro. Di fronte a ciò che è intollerabile, scrivere, dire e rappresentare diventano atti per sperare. Ma anche per riflettere, per trovare il proprio posto in un tempo che espelle ed espropria. È il gesto poetico - fattivo e generativo - del nominare che ci rimette al presente, facendoci soggetti nel tempo. Soggetti capaci di riscattare il tempo. E di incontrarsi, dopo essersi ritratti, per comparire.