A Milano nell'anno 1630 non è solo la peste a infuriare. Il terrore dell'epidemia alimenta false credenze, come quella che il morbo sia il prodotto di «arti venefiche» e che a diffondere il contagio siano loschi figuri per mezzo di sostanze infette. È in questo clima che matura il processo ai cosiddetti «untori», che porterà al patibolo l'ispettore della sanità Guglielmo Piazza e il barbiere Gian Giacomo Mora, accusati da un'umile donna del popolo senza altra prova che le confessioni estorte loro con la tortura. Concepita in origine come digressione all'interno del Fermo e Lucia, poi estrapolata e ampliata sino a diventare un vero e proprio saggio, laStoria della colonna infame (1842) ricostruisce con accuratezza la terribile vicenda giudiziaria e denuncia la corruttibilità della giustizia umana così facilmente soggetta a errori, abusi e pregiudizi. Per Manzoni lo scandalo di quel processo-farsa non è frutto dell'oscurità dei tempi o della inadeguatezza delle istituzioni, ma chiama in causa la responsabilità individuale dei giudici: quando viene smarrito il senso più alto della giustizia e tradita la verità anche il diritto può essere pervertito in strumento del male.