La lettera a Meneceo è conosciuta come la lettera sulla felicità ed è il testamento che Epicuro lascia all'uomo: il più grande valore che si può riconoscere nell'opera è aver voluto sottrarre la vita dell'uomo alle incertezze della sorte, affidando l'esistenza all'uomo stesso, rendendolo responsabile della propria felicità e ponendolo al centro della riflessione filosofica. Nell'opera si legge la necessità di liberare l'uomo dalla paura della morte, dalla schiavitù rispetto alle convenzioni sociali, dalla fatica della vita pubblica, dal timore degli dei. Lo stesso tenore ritroviamo nelle Massime Capitali e nello Gnomologio Vaticano: sono attribuite a Epicuro, o più probabilmente all'ambiente epicureo ed entrambe sono raccolte di massime a carattere filosofico e morale. In esse il filosofo da prova del suo famoso stile chiaro e immediatamente comprensibile, che proprio per questo rende le massime incisive e dirette, allo scopo di rendere l'uomo in grado di raggiungere la felicità: qui, come in tutta la sua opera, Epicuro lancia un richiamo all'immanenza della vita umana e alla sua importanza, mai svincolandola dalla ragione, dal rispetto della legge, dalla conoscenza, e fondandola sul valore immortale dell'amicizia. Completa il volume la Vita di Epicuro, scritta dallo storico Diogene Laerzio: nel testo si ripercorre la vita del filosofo in relazione alla sua infanzia e alla sua formazione. Si racconta inoltre della fondazione della scuola e dei rapporti con i contemporanei.