Ah no, questo libro non è nostalgia. Quella l'ho provata quando non dovevo, ed ero un ragazzo. Nostalgia di posti dove non ero mai stato per davvero, che uscivano da libri per l'infanzia... Stavo crescendo in una cittadina piatta, e senza magia, e gliela costruivo attorno a dettagli che sbiadivano ogni giorno un po' come vecchie cartoline. Non c'era più il cortile del cesso alla turca. Poi al cinema avevano tolto la televisione dal palcoscenico. Al bar Rio non arrivavano più i militari americani. E con loro se n'era andato il primo juke box... Era un mondo semplice, quell'Italia, che non sapeva di essere sul punto di diventare passato per sempre. E così sono arrivati gli anni Ottanta. Trent'anni dopo, quando si è smesso di cantare, senza che lo avessimo deciso o ci fosse stato imposto, è riuscito naturale. No, non sono uno che disprezzi il presente, o vagheggi un passato più felice di quanto apparisse allora, in corso d'opera. Non mi ostino a fermare il tempo. Solo mi chiedo il perché del silenzio di quei canti randagi. Non è stata la radio a farli zittire, c'era anche allora, e usciva dalle case come un profumo di cucina. Non è stata la prepotenza dei canti collettivi, in una gita in pullman, in un corteo politico. Sono cori attutiti anche quelli, adesso. Non sono state le cuffiette dello smartphone e neppure il Karaoke. Le piccole città e le città grandi, e tutta l'Italia, a un certo punto ha semplicemente smesso di cantare, imbambolata. Ho provato a raccontare questo nostro paese.