In "Divinità queer" Roberto Strongman esamina il vodou haitiano, la santeria cubana e il candomblé brasiliano per dimostrare come i rituali religiosi di possessione e trance permettano agli esseri umani di vedere se stessi quali incarnazioni del divino. In questi rituali, la commistione tra umano e divino produce identità di genere indipendenti dal sesso assegnato alla nascita. In contrasto con la visione cartesiana dello spirito chiuso nel corpo, nelle religioni afro-diasporiche il corpo è un luogo aperto. Mostrando come la possessione e la trance siano un aspetto primario delle religioni dell'Atlantico nero, Strongman delinea la transcorporeità quale rappresentazione culturale, prettamente afro-diasporica, della psiche umana, dell'anima e del genere, intesi come molteplici, rimovibili ed esterni al corpo, che funziona come loro casa.