Vent'anni fa Jonathan Franzen, dopo aver ricevuto nel giorno di San Valentino l'esito dell'esame autoptico del cervello del padre, descriveva magistralmente sul «New Yorker» il declino cognitivo del genitore dovuto all'Alzheimer. Lo scrittore, messo a dura prova dai due anni trascorsi insieme alla famiglia accanto al malato, traeva spunto dal viaggio nella demenza di Earl Franzen per rivendicare il suo rifiuto di ridurre la personalità umana «a insiemi circoscritti di coordinate neurochimiche». Due decenni dopo il racconto di Franzen, il neurologo Stefano Cappa l'ha riletto rigorosamente alla luce di quanto si è appreso sulle demenze grazie alla ricerca scientifica, quanto mai indispensabile. Se ancora non è stata scoperta una cura, molto è stato fatto per comprendere le ragioni che portano le cellule cerebrali a deteriorarsi e a sviluppare patologie tanto varie e complesse quanto complesso e vario è del resto il funzionamento del cervello stesso.