"I poeti maledetti" è il libro che apre la stagione all'inferno della poesia francese ed europea. L'opera che ha rivelato un modo di scrivere nuovo, al di fuori di ogni canone, rimanendo fedeli soltanto alla propria ambizione, alla propria immaginazione, al proprio talento. Quando, nel 1884, Paul Verlaine pubblicò questa raccolta, lo scandalo fu enorme. Era un'antologia rigorosa e sfuggente, che osava trattare con serietà quelle che allora apparivano come le voci più anomale, stridenti e sovversive in circolazione: Rimbaud, l'enfant prodige venuto dagli inferi; Mallarmé, il maestro visionario della poesia simbolista; Corbière, lo sdegnoso per eccellenza; Desbordes-Valmore, la musa drammatica e suprema; Villiers de L'Isle- Adam, il genio macabro e sconsacrato; e il misterioso Pauvre Lelian, sotto il cui anagramma si era nascosto lo stesso Verlaine. Abbandonati ancora giovani dalla vita, perseguitati da una sorte malinconica, spesso in preda alle convulsioni della droga e dell'odio verso i contemporanei, i sei «poeti maledetti» hanno incarnato la tensione più sconvolgente della letteratura occidentale. Allo stesso tempo, però, i maudits furono scrittori impareggiabili, artigiani millimetrici della parola oscura, sabotatori della norma e della tradizione per mezzo non soltanto dell'ebbrezza e dell'abiezione, ma di una fecondità e intransigenza stilistica senza eguali: astri di un firmamento divorato dall'Assoluto ma per sempre luminosi ai nostri occhi, se a più di un secolo di distanza tentiamo ancora di indagarne le profondità e forse, talvolta, ci illudiamo di comprenderne le tragiche urgenze.