Poesiàri, 'poesiare'. È una delle prime parole che ho ascoltato. Un ricordo impresso nella memoria giovanile, un atto di scrittura in età adulta. Una parola, quasi un sussurro, che si lega a un altro ricordo, quello del mondo agreste del mio paese, Melito di Porto Salvo. La campagna, i giardini di bergamotti, il mare, il lavoro e i sacrifici... Tutto questo si rifletteva, per le famiglie, in momenti di raccoglimento e socialità, che si traducevano a loro volta in canti. A volte d'amore, di viaggio, di attaccamento alla propria terra e ai propri cari; a volte invece erano canti di diffidenza e di scontro con lo Stato. «Nun sognu deliquenti ne malandrinu / Pirciò di mia tenitivi luntanu [Non sono delinquente ne malandrino / perciò da me tenetevi lontano]». Questi gli ultimi due versi del canto Lupu d'Aspromunti. Esprimono quel senso dell'orgoglio calabrese, spesso frainteso o volutamente deformato, in senso spregiativo o delinquenziale. Ecco, di quel mondo agricolo e pastorale forse è rimasto poco, forse è scomparso. Oggi corre inarrestabile l'abbandono degli antichi paesi e dei vecchi borghi; chi resta è distratto dalla vita di tutti i giorni e i giovani che partono non hanno altro che un trolley con dentro i loro sogni. In queste rime ho dato voce a quei sentimenti, a quel patrimonio morale delle nostre comunità di Calabria oggi vittime di una narrazione che vuole i suoi abitanti isolati, retrogradi, malfattori. Dedico queste rime perciò a persone di grandi virtù e valori morali, che si sono dedicate ai loro paesi, alle persone che qui si trovano, dal mare alle montagne.