Chiunque si trovi a sfogliare le pagine di questo libro non potrà sottrarsi alla sensazione di maneggiare una sorta di potentissimo ordigno inesploso della letteratura russa del Novecento. Mentre infatti figure come Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Osip Mandei'stam hanno dispiegato appieno la loro fortuna in Occidente, e il figlio Andrej, regista cinematografico fra i più grandi dello scorso secolo, giungeva ad essere vincitore a Cannes, Arsenij Tarkovskij (Elisa-vetgrad, 1907-Mosca, 1989), scrittore cui il regime sovietico impedì di pubblicare opere proprie per più della metà della sua vita ma in seguito autore di raccolte poetiche sempre più fortunate nel suo paese, resta in Italia e in Europa un oggetto semisconosciuto. Già la censura staliniana, in ogni caso, aveva colto la grandezza di questo artista, giungendo a scrivere in un documento ad uso interno, all'atto di bloccare le sue prime pubblicazioni, le seguenti parole: «Poeta di grande talento,Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui appartengono anche Achmatova, Gumilév, Mandei'stam e l'emigrante Chodasevic, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». Le poesie raccolte nel presente volume, unitamente alle prose di narrativa autobiografica e di meditazione sul senso del poetare che lo concludono, restituiscono un ritratto dinamico dell'autore attraverso tutte le fasi della sua produzione. E il risultato è sorprendente. Ad ogni pagina, anche aprendo a caso, si celebra l'incontro con qualcosa come un monile o una pietra preziosa. E questo non sarebbe stato possibile senza la mediazione (qui da intendere anche in senso quasi medianico) del curatore/traduttore Gario Zappi che - all'epoca di queste traduzioni poco più che ventenne - riesce nel miracolo di sublimare la nostalgia dell'originale in una lingua in cui si avverte la voce dei momenti migliori della letteratura italiana nel suo insieme.