Varlam Salamov è stato e rimarrà, forse persino suo malgrado, l'inflessibile «cantore» delle purghe staliniane. Per Aleksandr Solzenycin, premio Nobel, egli fu una voce inconfondibile nel narrare il Gulag, testato sulla sua pelle nelle misure più estreme. Come Primo Levi, che fu lettore entusiasta di Salamov, egli narra un'esperienza che scandaglia l'uomo nel momento di più radicale nudità. Contrariamente all'opera narrativa dei Racconti della Kolyma, tradotta in tutto il mondo, l'opera in versi dell'autore è poco nota fuori dal suolo russo. Sono poesie mandate a memoria durante il confino, per poi essere scritte solo anni dopo. Sono poesie che sconcertano per il tono. La degradazione umana del campo è uno sfondo quasi impercettibile. Il male inflitto non funge da tema del canto. Nella sua estrema precisione enunciativa, senza orpelli, ebbe già in Boris Pasternak un sodale ed estimatore. Una poesia nata ed intrisa nelle regioni abissali del Nord sovietico, nel settentrione profondo, confine della provincia umana. Nella fauna e flora più recondite di queste pagine un dettaglio cardine regna: il ghiaccio. Salamov non è mai immemore che l'inferno è una pozza artica. Il poeta è in perenne ascolto di ogni movimento della tajga: in comunanza di spirito coi fiumi congelati, la notte, il silenzio, l'animale e il fiore, nelle stagioni di transito.