Non è facile scrivere in versi, anche se può parere l'atto più istintivo e immediato. Non c'è solo l'espressione inarrestabile del cosiddetto "flusso di coscienza", tipica di tanto Novecento, da Svevo, Joyce e Virginia Woolf in poi. C'è anche la codificata e rigorosa tradizione coltivata dai poeti novecenteschi apparentemente più liberi dal peso della metrica che l'antichissima cultura greca ci ha trasmesso. Questi versi hanno consapevolezza di entrambi gli approcci. Comune denominatore alla raccolta è il passare del tempo sullo sfondo delle stagioni, che si rivela l'essenza stessa della voce poetica. Le case, le stanze, i giardini, insieme alle affettuose presenze che li hanno abitati, diventano, così, l'orditura di una stoffa spesso diseguale, con molti squarci lasciati aperti sul mondo, sui ripostigli della memoria, sull'amore. Perché, come scrive Lou Andreas-Salomé: «La vita umana, o meglio la vita in generale, è poesia. [...] essa ci vive e poeta in noi».