«Lettere inviate ai vivi e ai morti» sono sempre state le poesie di Tommaso Lisi. Dopo l'esordio con la «cantata d'amore» Ivana del 1955, presentata dal primo poeta del nostro Novecento Govoni, Lisi scrisse "I morti parlano": parlò e fece parlare i tanti trucidati dai pochi che sempre decidono le guerre. Il poeta andava inventandosi una lingua di poesia, con "Liturgia familiare" poi fattasi limpida, tagliente, naturale. In quell'"universo" quotidiano si scavarono le parole giuste, equanimi, risonanti, il grande respiro asciugato dalla sintassi. Il primo "resoconto" del lavoro ebbe il nome obbligato di "Corrispondenza"; successivamente l'autore spedì altre lettere "Fuorisacco", come le prime religiose di «amorosi sensi». Così Lisi ha proseguito a parlare - "in punta d'ago" - con tutti, attraverso i mai interrotti "Colloqui con il padre e la madre". Ora, in Il viaggio che dura un filo si dipana, attraversa tutti i libri per raccontare l'essere-nel-mondo.