Nel 1819, John Keats (Londra 1795 - Roma 1821), già consapevole del "male di petto" che lo avrebbe condotto in meno di due anni alla morte, compone sei grandi odi (a Psiche, a un Usignolo, su un'Urna greca, alla Malinconia, all'Indolenza e all'Autunno) destinate a rimanere come pietre miliari della letteratura inglese del XIX secolo. Guidato dal genio della sintesi, egli riesce a unirvi pensiero e poesia in una versificazione sciolta, ma rigorosa, ricca di descrizioni del mondo esterno e di quello interiore, che sfiora i ritmi più profondi della lingua inglese. La poesia deve nascere con la spontaneità «delle foglie su un albero», era solito affermare Keats, ma tale convinzione si fondava sul principio che la spontaneità, in epoca moderna, si potesse raggiungere solo con la riflessione sulla poesia, come un "fare" sottoposto a una continua revisione. Egli aveva condotto in precedenza tale revisione nelle celebri lettere ai fratelli e agli amici, trattando della "personalità del poeta", delle forme del verso e dell'immaginazione in senso filosofico, con accenti da neoplatonico. Tutte queste riflessioni, che già nelle lettere vengono esposte in contrappunto con alcuni sonetti, sono rielaborate nelle odi, sostiene nel suo saggio il traduttore Roberto Cresti, da una scrittura lirica di miti, figure e luoghi, espressi con spontaneità a lungo meditata, che la percezione della morte ispira a Keats come bassorilievi sulle urne di un sogno a occhi aperti, simile nella Bibbia a quello di Adamo, che, quando si risvegliò, scoprì che era vero.