La voce di Maarja Kangro risuona in un paesaggio desolato. Il suo linguaggio aspro, esplicito, ironico, nel rendere il male palese e banale, intende esorcizzarlo. Intende esorcizzare la paura. Non è detto che un evento negativo sia appena avvenuto, non è detto che di lì a poco accadrà, e tuttavia la sua minaccia incombe, si approssima passo dopo passo, strofa dopo strofa. Come se prefigurando l'evento si potesse fermarlo, fermare il tempo, l'irreversibilità dell'accaduto. Forse ognuna di queste poesie di Maarja Kangro può essere letta come un sintetico, balenante trattato di filosofia pessimista. Un breve sorriso laterale commenta con lucida amarezza la non schivabile crudeltà dell'esistere. Non ce ne sono esplicite tracce, ma ugualmente ci colpisce come evidente, la risonanza di una categoria, in certo ambito, universale: ci sembra d'ascoltare una voce leopardiana. Non certo il Leopardi dei Canti, perché qui ogni liricità è assente, o meglio, per identificare il gesto che l'aggredisce, bruscamente spazzata via. Ma si avverte una affinità, in contesti che più di due secoli ci separano, con il Leopardi delle Operette.