Umberto Saba diffidava del Pascoli del Fanciullino. E questo, ha spiegato Andrea Zanzotto, malgrado anche a lui appartenesse il mito dell'infanzia: ma troppo bambino, solo bambino Pascoli; laddove il luogo della poesia è quello di una consustanziazione del bambino meravigliato e dell'adulto consapevole. Modello di quest'uomo-bambino, secondo Saba, Dante. "Scorciatoia" proditoria. Eppure, aggiungeva Zanzotto, Dante si è trovato nella condizione unica di creare una lingua, e con essa un mondo. L'«inizio di un nuovo tempo, di una nuova nazione»: che fuoriesce dalla sua opera col «piacere del principio», per dirla sempre con Zanzotto, di un uovo che si schiude. Per questo alla teoria del «cominciamento» che è la Vita Nova si salda la letterale infanzia degli ultimi canti del Paradiso (dove il poeta si paragona a «un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella»). Quella «che più non si sa», ha sostenuto Giorgio Agamben in pagine classiche, è una lingua del «puro voler dire», antecedente alla sua dimensione semantica. Questa «lingua morta», «individuale e artificiosamente costruita», è la maggiore eredità consegnataci da Pascoli. E allora non è un caso che qui, insieme a lui, Maria Grazia Calandrone convochi proprio Dante (e Pasolini, e Caproni, sino ad Antonella Anedda e Guido Mazzoni). A una poesia per adulti, che oggi si rivendica, sin dall'inizio lei ha contrapposto una poesia adulta che si rivolge alla nostra infanzia perenne, al nostro «luminoso stupore».