«La luce e l'accaduto si sono finalmente ricongiunti/ dopo anni di finzione»: è questa la morale in fondo positiva che si può trarre dal nuovo libro poetico di Monia Gaita, che segna l'ulteriore progresso di un processo di maturazione e di presa di coscienza dei propri mezzi espressivi cominciato già qualche anno addietro. A ciò si aggiunga un'altra conquista pure d'ordine etico: la progressiva metamorfosi pronominale dell'io lirico nel noi non meno antropologico-religioso che storico-esistenziale delle pagine conclusive, per un insieme davvero originale entro il contesto della nostra poesia contemporanea. E l'opera della poetessa irpina finisce così per oscillare fra i due poli della singolarità sensibile e della comunità problematica che coincide con l'intero genere umano. Suddiviso in quattro capitoli a struttura poematica, il libro si articola attorno alle dominanti di un'orazione funebre che diventa autoconfessione del soggetto in primo piano; teatro di una natura che trascina la puntuale vicenda del racconto in un gorgo di millenni; la feroce ma non disillusa messa in discussione della valenza positiva dello sviluppo storico; e la struttura di un'arringa un poco difensiva e un poco accusatoria condotta davanti a una corte giudicante, poiché - come in Kafka - «Il crimine è compiuto, ma l'antefatto è ignoto».