"Spòreve, dice il poeta. Potatura. Ma Granatiero è potatore da sempre. Potatore per esperienza d'esercizio proprio, e potatore per pratica d'esercizio poetico. Come l'intrecciare canestri è stato il principio della sua terza rima, così il potare gli ulivi, che qui compaiono, con tutta evidenza in apposita sezione, continua a essere il principio fondamentale della sua poetica, del suo intendimento di poesia. Granatiero è poeta che persuade se si muove entro i suoi statuti abituali, entro le sue gabbie, entro i suoi panieri. Già non è mai stato effuso, non ha mai abusato della sua parola, che - tutt'al contrario - ha sempre voluto esatta, precisa, commisurata. E meno che mai lo è oggi. Sempre ha prevalso e prevale la ragione precipua del suo scavo dentro un mondo di parole recuperate con pazienza certosina, spigolate dalla memoria e dalla voce dei suoi testimoni antichi, addirittura arcaici, e composte in un vocabolario sorprendentemente ricco, ma soprattutto esatto: una parola per ogni cosa, una parola per ogni frammento di cosa; non sinonimi, ma unicità, corrispondenza di cosa-parola. La poesia più alta - sempre nella domestica dimensione di quotidiani stimoli - sta laddove il poeta rivela tutta la sua capacità di imprimere alle cose la loro piega - magari amara e persino funebre - non tradendone la metaforica allusività, capace di collegamenti remoti che sprigionano scintille vitali in attriti e voli di fantasia. L'esempio massimo in componimenti come Chepe de prete, quella testa di pietra che sollecita domande. Che cosa venuta a cercare? Che cosa a dire "da u sprefunne/lu tímbe"? (e l'enjambement va notato). Che cosa può mai pensare una testa di pietra? Che cosa ripetere agli astri? Quale dialogo intrecciare? Se non la magnifica, abissale, vertiginosa, contemplazione degli spazi tra terrestri e siderali? Gli spazi in cui viviamo".