Una silloge di esordio per Fabrizio d'Azzeo lucida, disarmante e genuina nella sua ruvidezza. Una poesia inattesa, una sorta di stenografia delle sensazioni, un'elaborazione accurata tesa a mettere ordine nei sentimenti. Un gioco con gli altri e soprattutto un gioco con se stesso attraverso cui comprendersi, prendere coscienza di sé facendo della poesia quasi l'estrema risorsa, sì perché ciò che non può essere detto altrimenti può essere detto in versi. Le liriche scritte nel corso degli anni in cui "le emozioni si scazzottavano e le sensazioni si spintonavano, sì che era difficile capire gli altri e capire il proprio posto nel mondo" sono connotate da uno stupore, quasi candido, verso il disvelarsi di un mondo in cui non vale più la regola del vissero per sempre felici e contenti. Il poeta ci narra di un Io cosciente, sempre fedele a se stesso, quasi la difesa della propria identità fosse viatico per l'ingresso in quel mondo adulto. E lo fa senza pudore, graffiando l'essenza stessa della vita, affrontando la verità senza nascondersi, consapevole del confine tra solitudine ed essere soli.