«Che Di Ruscio fosse venuto al mondo nella povertà del vicolo Borgia, a Fermo, che fosse un autodidatta, un muratore disoccupato e poi un militante di base nel Pci di Palmiro Togliatti, che infine fosse emigrato nel '57 a Oslo per acquisire lo status per lui definitivo di operaio metalmeccanico nella fabbrica fordista (e nel cosiddetto paradiso socialdemocratico), tutto ciò era senz'altro la materia prima, peraltro mai abiurata, della propria condizione personale ma non bastava affatto né basta oggi a spiegare, tanto meno ad esaurire, lo spessore della sua voce poetica, il ritmo e il tono inimitabile della sua pronuncia. La quale è una splendida eccezione, una assoluta singolarità, nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento. Non un poeta-operaio come pure e sbrigativamente si è detto tante volte, quasi si trattasse di sommare il sostantivo all'aggettivo, o viceversa, ma un poeta capace di introiettare/metabolizzare/rielaborare la condizione operaia alla stregua della condizione umana tout court. La marginalità, il lavoro in fabbrica, un orizzonte politico che il dopoguerra presto richiude, qui in Italia come altrove, ne sono insieme i fondali e i referenti.» (dalla Postfazione di Massimo Raffaela)