«Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente /che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente», questi versi di un grande poeta portoghese, Fernando Pessoa, accompagnano, se pensati etimologicamente, la poesia di Domenico Brancale. Fingere nel senso di dare forma al dolore, plasmarlo, restituirlo a quel crogiolo aurorale della metamorfosi poetica che è la parola; mondare il dolore dal dolore: atomo di eterno. «Viviamo senza sentire sotto i passi la terra». C'è in Brancale una manifesta consonanza con l'Atemwende celaniano, una nota profonda che accompagna la sua officina poetica Segnate dal fulmine, le sue parole bruciano di sete, hanno nostalgia dell'istante. Ritrovano Phlebas il Fenicio che cammina vagando per i fondali marini, come nella Canzone di Aengus l'errante. La poesia di Brancale appartiene alla sua terra natale, alla luce divorante del Sud. E risuona enigmaticamente negli acquerelli quasi immateriali di Miquel Barceló, che aggallano nel testo, con inaudita forza tellurica, fratture che ricompongono l'immagine-parola-originaria. Terra e acqua nella loro insondabile coappartenenza.