A più di cinque anni dall'ultimo di quelli che mi piaceva (e piace) definire racconti metricati (inaugurati da 1932) ecco che risuccede. Dopo una feconda-febbrile stagione di incontri reperti-reliquie agnizioni, ancora una volta rallento, mi volto indietro e mi capita quel che a Zanzotto capitava spesso (ne parlava in un brano che tanto mi colpì ma che oggi, a ricercarlo sui miei scaffali, come al solito, non trovo più): il mio nuovo libro è pronto, questo Giardino e morte del signor Palomar mi sorride, mi fa cenno, si conclama finito. Io? Io devo solo riconoscerlo. E parlo di un libro perché, a dispetto della sua evidente-dominante natura di raccolta, attraverso Giardino e morte si manifesta un telos, postumo quanto evidente: che intimamente ne compatta i primi quattro pezzi, i più recenti (2017-18), pur germinati ciascuno per propria precipua occasione-ragione. Li chiamo pezzi ed esito a chiamarli altrimenti, se non indagini-narrazioni, poiché sorti a un bizzarro crocevia tra ricerca sul campo, florilegio-giardino critico e poesia-racconto. Perché sia chiaro: "Giardino e morte" desidera accreditarsi anche come riflessione su forme e possibili in letteratura.