Ogni notte le sue vittime-carnefici lo vengono a visitare, nel palazzo sulla collina che domina la città sottostante «o ciò che ne rimane, un magma, un accumulo di materia», e gli impediscono perfino di morire, perché anche le vittime sanno che la tortura è l'arte di «non far morire troppo presto». È uno specialista, anzi è lo specialista, ma nessuno vuole essergli troppo vicino, è «contagioso»; e spesso, guardando oltre la riva del fiume, spera nell'arrivo vittorioso del nemico: anche se questa guerra è infinita e non ha più vincitori. L'attendente, che lo serve, si tiene lontano dal cerchio di luce che abbaglia l'uomo-cosa interrogato, e il colonnello non ne scorge mai il viso. E vi è un terzo personaggio, ombra sperduta del dubbio e del tormento: il generale che nel delirio gioca a scacchi con il suo fantasma, il fantasma della vittoria, «un castello di carte, una costruzione illusoria e fragile». Alternando la grottesca narrazione a un poema dell'incubo, questo è un breve romanzo ispirato e sincero contro la guerra; un grido contro la «calma idiota» (da un verso di Louis Aragon in epigrafe) di chi pensa che la guerra sia una legge inevitabile di natura.