Isolato in una capanna dell'Anatolia, morso da un cane rabbioso, Ahmet attende la fine del periodo di incubazione lasciandosi andare alle intermittenze della memoria e del cuore. È lui il narratore di "Gran bella cosa è vivere, miei cari" (1962), la cui gestazione ha accompagnato a lungo la vita di Hikmet. Pur trattandosi di un'opera di fiction, le vicende raccontate attingono all'esperienza personale dell'autore: sua è la voce di Ahmet, così come quella di un altro io che gli si alterna, in un sublime gioco di proiezioni e riflessi narrativi; suo soprattutto il "materiale di vita" che si accumula, gli squarci dell'infanzia, i momenti di attivismo politico, le sofferenze dell'esilio; suo l'incancellabile ricordo di un'amatissima donna, Anuska, sfuggente e contesa. Ma definire questo romanzo semplicemente autobiografico sarebbe oltremodo riduttivo, perché scorre nelle sue pagine una forza creativa che attinge alla poesia di Hikmet e a tutta la sua opera, in un singolare procedimento che, con felice intuizione, nella sua postfazione Giampiero Bellingeri definisce "autobibliografico".