"Sono passati quasi ottant'anni dalla mattina di maggio in cui Augusto, scesi i gradini di pietra della villetta, era passato sulla ghiaia scricchiolante del giardino profumato di rose e calycanthus, aveva aperto il cancello di ferro e non aveva fatto più ritorno." Gorizia, 5 maggio 1945: lì, in una città occupata dalle truppe di Tito, è il fulcro della narrazione, in gran parte autobiografica, ma l'autrice non vuole parlare dettagliatamente di storia, delle giornate convulse e tragiche di quella primavera in cui venne deportato suo nonno, membro del Cln goriziano. Con Un cielo da neve, attraverso il ritratto psicologico, vengono descritte quattro generazioni di donne della sua famiglia, dalla mitteleuropa austroungarica ai giorni nostri, per mostrare il danno che la tragedia della guerra, di qualunque tipo, delle deportazioni e delle foibe ha provocato nella vita della sua famiglia d'origine, come in tante altre vite. Una tragedia vista dall'«interno», un viaggio introspettivo nel congelamento dei sentimenti e dell'affettività che un lutto non rielaborato ha provocato. Fino all'affrancamento dal danno nell'ultima generazione. È un percorso di graduale pacificazione attraverso i sentimenti di queste donne, pacificazione e superamento delle divisioni anche nella vita reale con l'eliminazione del muro che divideva in due parti Gorizia, una italiana, l'altra jugoslava - poi slovena -. All'interno di queste vicende si inserisce una storia d'amore, tanto più struggente per l'incapacità di concluderla.