Vladimir Jankélévitch (1903-1985) - filosofo francese e grande esperto di musica - dedicò questo suo scritto a Maurice Ravel, e più in generale al significato, alla potenza, al linguaggio della musica moderna. «Maurice Ravel, come Chopin, trova quasi subito se stesso» scrive Jankélévitch. «È innegabile che l'opera sua rechi, agli inizi, le tracce della sensibilità letteraria del primo Novecento, nonché un vago languore "fin de siècle", che scomparirà ben presto; più tardi, negli anni fecondi fra il 1905 e la guerra, la riscoperta di François Couperin; dopo la guerra, il jazz, Stravinskij, la politonalità. Eppure, nonostante il variare dei suoi volti, l'arte di Ravel non è così sensitiva come quella di Debussy; fin dall'inizio è chiaro che avrà una volontà più ferma e una minor ricettività. E quale potenza! In Bolero, per non citare che l'opera sua più famosa, come un serpente ci inchioda e ci affascina con i suoi occhi sempre fissi. Ravel compie il prodigio di riempire una mezz'ora di musica con un tema di sedici battute, senza sviluppi né variazioni, aggiungendo via via nuovi timbri: flauto, clarinetto, oboe, oboe d'amore, trombone e sassofono, mentre il tamburo insiste senza tregua nel suo ritmo ostinato. Varietà della monotonia, certo, ma quale potenza!».