L'autobiografia di Stéphane Grappelli, scritta con l'aiuto di Joseph Oldhenove e Jean-Marc Bramy che del Maestro e dell'amico hanno sollecitato e raccolto le memorie, nella edizione francese si intitola letteralmente: "in viaggio solo con il mio violino per bagaglio"; e, in effetti, è una storia di viaggi, di concerti tenuti in ogni parte del mondo, di incontri, tutti rievocati con la misura dell'affetto e della nostalgia, in cui non trovano spazio e peso né giudizi brucianti né rivelazioni sconcertanti. Il tratto del garbo, della mitezza, della buona educazione ne sono la cifra più marcata che rivela un'attitudine della vita. È anche, però, il racconto di una solitudine di cui il violino diventa l'emblema, oltre che un permanente tentativo di riscatto. L'itinerante compagno di un ragazzo povero che, diventato adulto e famoso, cerca le sue radici per non perdersi, per comprendersi. E le rintraccia in una periferia della provincia italiana - ad Alatri, pochi chilometri da Frosinone, da dove suo padre era emigrato per la Francia - dentro una torre che, forse per caso, porta il suo nome, pur depurato della i finale francesizzata da un accento, spia della sua emigrazione e segno identitario, ridotto al grado zero, di un artistico vagabondaggio. Radici ben piantate in un giardino che adesso conserva - e sarà così per sempre - l'ultimo, resistente, sbriciolato sedimento materiale della sua anima.