Quando, nel 1967, Jacques Derrida pubblica "Della grammatologia", il panorama filosofico europeo viene attraversato da un sisma che oggi, a quasi sessant'anni di distanza, non ha ancora cessato di rilasciare la sua energia tellurica. Salutato da Foucault come "il testo più radicale che abbia mai letto", o da Levinas come un insieme di "pagine incandescenti, arborescenti", Della grammatologia può essere considerato, a tutti gli effetti, come la "matrice" di quanto sarà poi chiamato - con non pochi fraintendimenti - "decostruzione", e che consiste nell'individuazione delle condizioni di possibilità dell'esperienza di quanto viene chiamato, spesso con poca chiarezza, mondo o realtà. L'opera di Derrida si sviluppa in tre parti consacrate prevalentemente (ma non esclusivamente) a Saussure, a Lévi-Strauss e a Rousseau, assunti quali "emblemi" di una tradizione "logocentrica", vale a dire di una secolare storia del pensiero che ha trovato nella metafisica (e in tutto ciò che ne scaturisce: politica, cultura, scienze umane), nella sovranità del logos, il rifugio e la protezione rispetto a quanto può inquietare l'unità e l'ordine del pensiero. Dopo la prima, storica traduzione italiana del libro apparsa nel 1969 e coordinata da Gianfranco Dalmasso, oggi viene presentata una nuova edizione che ha potuto fare tesoro degli approfondimenti e degli ulteriori percorsi di Jacques Derrida.