È incredibile quante storie ci possano raccontare le parole, ma non sempre siamo in grado di ascoltarle. Le parole viaggiano con le persone, sono parte di noi. I vocaboli vanno usati per non essere dimenticati, ma se non si conoscono è improbabile poterli utilizzare. Questo vocabolarietto rappresenta un modo concreto per tenere in vita il ricordo; può evocare un Friuli arcaico, duro certo, ma gentile e sagace, a volte persino sorprendentemente estroso. Con esso si entra in contatto con l'immaginario fantastico friulano dell'agone, dello sbilf e dell'erbolat, si scoprono i nomi di colori come blâf e si ricordano quelli degli antichi mestieri come becjâr, casulin, ciroic. Se vorrete dire che il ragazzo friulano che avete appena conosciuto è un po' sopra le righe, potrete usare la parola mataran, mentre chi ormai ha qualche anno in più si ricorderà che sua madre sulla tavola metteva il mantîl, anziché la tavuae, oppure i vostri genitori vi avranno parlato dei tempi in cui sui prati a fasevin lis marculis. Fra gli oltre mille lemmi troverete altre meraviglie come androne, beorcje, cjarande, daprûf, erte, favite, gnuche, inficje, ledrôs, mossit, norie, alme, prionte, revoc, sgarduf, taviele, usme, vermene, zupet. Poter parlare la lingua dei nostri nonni e dei nostri genitori è poesia. Svegliarsi al mattino e vedere le brose, oppure la zilugne è come continuare a dialogare con i luoghi e le persone che in queste terre hanno vissuto. Nelle parole scorre l'eredità della vita.