Feci un sogno: il pavimento s'era fatto di sabbia, e i corpi mozzati, i tronchi del cadavere e di me, vi rotolavano in una specie di tetro sumo, un combattimento rituale antitetico all'essenza del sumo giapponese, in cui la lotta ha la durata di una scintilla e il dramma non ha tempo di nascere, il meraviglioso non si attarda ad essere, e non muore. In questo sogno il tratto della spinta era sostituito da quello di un faticoso trascinamento, dall'avvinghiarsi dei corpi mutilati in una guerra immobile, in un conflitto senza fine. Ed è questo che mi suggerisce la seconda opera di Carlo Ragliani, La carne, che segue Lo stigma (italic, 2019): l'asfissia di uno stambugio, un cadere-caduta, un cadere nella caduta le cui trepidazioni imprimono sulla sua immagine un movimento imbrigliato, e per ciò stesso potentissimo (Ianus Pravo).