«Parole deposte nella fragilità», «in compiutezza di polifonie / dove ti lasci l'ovvio alle spalle / e l'apertura è un punto / su cui non transigi», questa poesia dell'apertura e dell'intransigenza utopica sembra inverare le parole di Paul Valéry: «Una poesia è un discorso che esige e implica un legame continuato fra la voce che è e la voce che viene. Togliete la voce, la voce che ci vuole, e tutto diventa arbitrario». Il più autorevole mediatore tra gli spazi culturali italiano e sloveno in veste di traduttore, l'editore, una delle personalità più intense e individuate della poesia slovena contemporanea, Gasper Malej è - consapevolmente - poeta della materialità della voce: «In un certo senso la poesia che scrivo è sempre più una questione di voce, di voci che sento, voci interiori che poi "trascrivo". La mia non è una poesia visiva». Voci dal nitore via via cristallino, onirico, subacqueo, dal rigore inflessibile nella messa al bando della violenza dell'ovvio e dell'esibizione circense di sé, parlano, sussurrano, balbettano in questi versi, finché irrompe «un grido che annuncia un fulgore», uno «sguardo dal rovescio del cosmo», che intima di stare «sempre dalla parte della luce», compromessi fino in fondo con «una realtà verso cui prendere posizione» - affinché germogli, tra la violenza e il nulla, l'impervia possibilità di stare «tra le cose, nuovamente amate, / con sobrie parole»: è forse questo cui alludevano quelle parole sul costruire. Su di un palazzo che sorgerà un giorno, trasparente, sgravato da ogni sospetto; affrancato da ogni rumore che palesi l'inconsistenza. E da cima a fondo permeato di una nuova intimità. Introduzione di Fabiano Alborghetti.