Cosa resta della «verità» dell'immagine impressa su pellicola al tempo in cui è diventata completamente sintetica? O forse non c'è mai stata una verità dell'immagine? Un grande fotografo e teorico ci accompagna in una vertiginosa discesa oltre i confini di realtà e finzione. In principio c'erano la pittura e lo specchio. Prima della fotografia c'erano i medaglioni coi ritratti delle persone più care e c'era la possibilità di vedersi riflessi, per riconoscersi e abbellirsi. L'immagine che resta nel tempo e quella fugace quanto uno sguardo. La fotografia è più specchio che pittura: uno specchio che congela l'attimo, che ha memoria, in cui le cose si imprimono per sempre. Fugace e insieme eterno. La fotografia cambia la grammatica dell'immagine, che quando è riflessa non inganna, restituisce il mondo così com'è, e invece quando viene impressa su pellicola si trasforma, dipende da un punto di vista, diventa interpretazione, in bilico tra il vero e il falso: bisogna fare un salto oltre lo specchio per comprenderla. Bisogna considerare questioni antropologiche, estetiche, politiche. E allora forse la fotografia è sempre stata un po' virtuale, ben prima che si potesse immaginare un universo in cui tutto è virtuale. Joan Fontcuberta, uno dei più rispettati ed eclettici studiosi di fotografia al mondo, ci accompagna in un viaggio tra le immagini poetico e insieme teorico, in cui si passa dal mistero alchemico della pellicola e della luce, alla magia oscura delle scatole nere in cui si raccolgono e si computano i dati. Un viaggio tra le illusioni del passato e quelle del presente.