Parlare di Nicola Tacchinardi permette di mettere a fuoco un mondo - quello della lirica del primo Ottocento - ormai dimenticato. I melomani dei nostri tempi guardano soprattutto ai capolavori dell'opera romantica della seconda metà del XIX secolo, in primo luogo a quelli verdiani, mentre il "belcanto" dell'epoca precedente è oggi materia soltanto di studiosi. Tacchinardi è attivo in una fase di passaggio tra due modi diversi di stare sul palcoscenico. Proprio per questo motivo la sua figura suscita interesse. Al di là del grande valore artistico, questo tenore livornese ha in sé, contemporaneamente, stilemi settecenteschi e del nuovo secolo. Del resto, si tratta di un artista nato nel 1772 e morto nel 1859. Canta insieme a Gian Battista Velluti, l'ultimo dei celebri castrati che avevano contraddistinto la lirica del XVIII secolo; è un tenore baritonaleggiante e non certo uno di quelli che, nel secondo Ottocento, esploderanno nel "do di petto"; si esibisce in opere ispirate alla mitologia e agli eroi greco-romani (Trajano in Dacia, Andromaca e Pirro, Gli Orazi e i Curiazi, La distruzione di Gerusalemme), secondo il gusto settecentesco; ma il suo cavallo di battaglia sarà il romantico Otello di Rossini e, nel saggio Dell'opera in musica e de' suoi difetti, evidenzierà la necessità di modernizzare il teatro lirico e di sottrarlo ai capricci dei divi.