La nuova, più intensa fase della guerra senza quartiere tra Israele e "asse della resistenza" iraniano cambia in modo radicale e irreversibile la fragile equazione mediorientale. Il governo israeliano porta alle estreme conseguenze la logica dello scontro "esistenziale", puntando a modificare strutturalmente i rapporti di forza a svantaggio di Teheran e alleati e subordinando a tal fine qualsiasi considerazione di carattere diplomatico e umanitario. L'Iran, timoroso dello scontro diretto con lo Stato ebraico e con l'America ma deciso a mantenere una deterrenza che considera assicurazione sulla vita, sta abbandonando il paradigma della "pazienza strategica" a vantaggio delle istanze interne più radicali, specie negli ambienti militari. I paesi arabi del Golfo oscillano tra ostilità verso Teheran e paura dei contraccolpi dell'offensiva israeliana, insensibile a qualsiasi "linea rossa". Gli Stati Uniti, paralizzati dalla campagna elettorale e divisi al loro interno tra sostegno a Israele e condanna della sua deriva bellicista, stentano ad articolare una posizione e finiscono per essere usati dal premier Binyamin Netanyahu e dalla destra israeliana, avallandone di fatto fini e metodi. L'Europa condanna le reciproche violenze ma è egualmente impotente, al pari dell'Onu e delle altre agenzie, governative e non, presenti in Libano e a Gaza. Questa guerra, come il barbaro attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 che l'ha precipitata, sta mettendo in discussione natura, coesione, rapporti internazionali, integrità territoriale e identità dello Stato ebraico. Il rischio di una eterogenesi dei fini, ben presente in ogni conflitto come da ultimo sperimentato da Vladimir Putin in Ucraina, è grave e concreto.