L'intellettuale, scriveva Nicola Chiaromonte, «Non rappresenta nulla se non rappresenta l'individuo e la sua libertà, se non mantiene a qualunque costo il principio stesso dell'individualità, il diritto al dubbio e alla critica, il senso del vero e del falso, il rifiuto delle menzogne inutili. In questo, la sua funzione è eminentemente sociale, solidale dei diritti di ognuno, e dei più umili: cioè dei più silenziosi e più facilmente ingannabili... ». Ecco: questo è stato Leonardo Sciascia: con i suoi libri e i suoi interventi, il suo essere, il suo "fare". Per primo, e praticamente da solo, ha saputo immortalare l'aberrazione mafiosa nella nostra letteratura e nella nostra vita civile. Ha ammonito che la legge, che la sua certezza, la certezza delle regole, l'uguaglianza di tutti, di fronte alla legge, è quanto va opposto all'"emergenza" del male, "politica" o criminale che sia. Un Diderot siciliano che applica la ragione: più propriamente l'anticonformismo della ragione, con lo scetticismo e insieme la partecipazione di chi osserva e sa vedere; e costantemente dedica la sua attenzione e intransigenza alle istituzioni, la sua pietà alle persone. La Giustizia come "ossessione", impegnato in una quotidiana azione di "rottura": di questa specie di patto tra la stupidità e la violenza che si manifesta nelle cose italiane; dell'equivalenza tra il potere, la scienza, e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo. In questo libro si parla di uno Sciascia politico, che consapevolmente "confonde" etica e politica. Uno Sciascia che non per caso si ignora e si cerca di occultare.