"Il Re Torrismondo" del Tasso ha avuto un curioso destino: atteso dal pubblico dei lettori del tempo, come dimostrano le dodici edizioni consecutive al suo apparire, fu nello stesso tempo un repentino successo e un fiasco plurisecolare quasi che i non pochi lettori delle prime stampe preferissero ritrarsi da quest'opera. Come mai non si ripetè, per il poeta indiscutibilmente maggiore del suo tempo, il successo della "Liberata" e dell'"Aminta"? Perché il poeta della tragedia è precocemente invecchiato e stanco, come per lungo tempo si è detto o c'è qualcos'altro? Il Torrismondo e la tragedia patirono in Italia, sul valico dei due secoli, una sconfitta storica dalla tragicommedia e dal melodramma. Il mancato successo della tragedia di Tasso si trova tra questi crocevia, ma è indubbio che l'autore ci abbia messo del suo a rendere difficile la partita e non per precoce senescenze o fievole vena creativa, quanto per una scelta di tragico radicale, poco digeribile, incardinato com'è in un'ottica di lutto senza risoluzione. Il Torrismondo è l'ultima opera del Tasso, che mette in scena i moti degli affetti e delle vicende umane (a parte la riscrittura della "Conquistata") e non si può non leggerla come un deliberato congedo da un mondo di passionalità che ben lo coinvolse. Ma la misura del congedo è più ampia e riguarda l'insieme della tradizione letteraria ereditata, come dimostra questo studio, un'opera profondamente antiumanistica e antirinascimentale.