21 settembre 19 a.C.: Publio Virgilio Marone muore a Brindisi lasciando incompiuta la sua opera più importante, l'Eneide. Incompiuta non per pochi versi da rifinire (come a volte si sente dire), ma per una quantità di nodi non sciolti, mancate armonizzazioni, contraddizioni di un testo ancora magmatico: aspetti che certo non penalizzano la straordinaria ricchezza poetica e umana del poema e anzi offrono la preziosa possibilità di intravederne le stratificazioni, lo sviluppo del pensiero dell'autore, una sorta di making of. Destino strano, quello dell'Eneide: tra strumentalizzazioni imperial-fasciste, deprezzamenti su Virgilio "servo del potere" e incomprensioni sul profilo di Enea non si contano le letture che tradiscono un senso globale del testo. Scritto su commissione di un principe ambizioso per celebrare una nuova età dell'oro, grazie a una pace raggiunta dopo decenni di guerre, il poema svela una realtà complessa, dove la ricerca interiore di Virgilio si specchia nelle vicende e nelle fatiche interiori del protagonista. Cioè un profugus allo sbando coi suoi compagni nella più grave crisi del mondo antico, quella che travolge l'età del bronzo (circa 1200-1150 a.C.). Una crisi - climatica, politica, economica, culturale, religiosa - che dai Balcani al Caucaso, dall'Egeo al Nord Africa, dall'Anatolia per tutto il Levante vede migrazioni coatte, crolli d'imperi, ibridazioni culturali. Se troppe volte ci lamentiamo, di fronte alla nostra crisi odierna, di non disporre di categorie adeguate per interpretarla, grandi storie come l'Eneide offrono senz'altro qualche preziosa provocazione.