Che significato ha il silenzio per colui che scrive? Si tratta veramente di un ostacolo? Per abitudine siamo portati a considerare il silenzio come il nemico che lo scrittore deve sconfiggere, il blocco che deve cercare di oltrepassare per imprimere l'inchiostro su carta. Fonda tale idea una concezione dialettica del rapporto tra scrittura e non-scrittura in cui il silenzio è ridotto a mera antitesi della parola. Il limite di questo punto di vista consiste nel non tenere conto della conflittualità che germina all'interno di uno spazio, quello letterario, dove parola e silenzio si coinvolgono in una relazione giocosa, obliante e interminabile. Maurice Blanchot, analizzando il valore del silenzio nell'esperienze letterarie di scrittori come Rimbaud, Mallarmé e Rilke, propone una concezione più stratificata e paradossale del legame tra scrittura e non-scrittura. Non c'è parola che non poggi su uno sfondo di silenzio, non c'è silenzio che non sia infestato dalle parole. In questo quadro concettuale lo scrittore è colui che è condannato al più insensato dei compiti: conservare il silenzio scrivendo. La scrittura non è più una cancellazione del silenzio, la scrittura dovrà tentare d'essere «un modo di tacere».