In questo saggio del 1952 lo studioso Auerbach - e il letterato, e lo scrittore - sente l'esigenza di cimentarsi con la nozione goethiana di "Weltliteratur": parola magica e figura mitica a un tempo. Qui la "letteratura mondiale", di cui l'Auerbach si costituisce filologo, facendo tesoro della precedente esperienza di romanista, si correla alla (e dipende dalla) "storia mondiale", in quegli anni determinata e sconvolta dalle guerre che scandirono la prima metà del secolo, assumendo cosí valore portante di ricerca, di sforzo ermeneutico, perché, - come afferma l'autore con una frase lapidaria, semplice e ardita - "le cose stesse devono farsi linguaggio".