In primo piano sono gli usi e costumi del popolo, inseriti nel ciclo dell'anno e della vita, con a punti di riferimento il semestre primario e una famiglia contadina spiegato ai ragazzi, come se fossimo davanti al focolare di una volta. La seconda parte è fatta proprio di storie vere, cioè di episodi, sconosciuti ai più che rallegrano anche gli animi dei grandi. Il calendario dà un senso reale, di movimento, di vita, di continuità a cose che, se elencate soltanto (proverbio, detto, canto, racconto), avrebbero avuto un tanto di irreale e di effimero, perdendo, per la statica freddezza, l'originale valore che invece viene rafforzato e suggellato dalle storie. Ecco allora le pagine assumere un volto diverso dal solito, una veste più popolare e autentica delle nostre genti. Il racconto non abiura alcuna scientificità dello scritto, anzi ne esalta il vero storico. Agli avvenimenti con tanto di documento finale, si antepone un altro aspetto, quello orale delle tradizioni, più semplice dal punto di vista di studio, ma di certo complesso nell'elaborazione dei dati, desunti da un patrimonio tramandato nella Valle Beneventana e assorbito da una società in continua evoluzione. Questi dati, a volte modificati dal tempo, ma trasportati dal dialetto parlato fino a noi, sono una minima parte del patrimonio orale del tempo, quella meno predisposta a mutarsi - per le sue diverse origini etimologiche - e quindi scevra da infiltrazioni che fortunatamente non ne hanno permesso alcuna integrazione nella lingua parlata moderna. Per esempio la parola "comodino" ha come equivalente "colonnetta" e prima "columella": ci è giunta mutata nel senso e nel valore con il diretto equivalente italiano di comodino. L'uso del termine è lo stesso, ma da "colonnina porta lume" a "comodino", come cioè oggetto di comodità, il significato cambia. Con nostra soddisfazione, non capita la stessa cosa con parole come "bardascia", che oggi ritroviamo in voga tanto a Pietrastornina, ex casale sofiano, quanto in un quartiere di Spoleto, e come "quatrana", che non hanno un equivalente etimologico italiano se non nella parola "ragazza". Ma "bardascia" ha una storia diversa, deriva dal francese "bardashe", dallo spagnolo "bardaja", e prima ancora dall'arabo "bardag" e significa "schiava", mentra la 'quatrana' si rifà alla neonata che gattona, ormai sostituita dal classico 'guagliona' anche a S.Martino Valle Caudina e Pannarano. Purtroppo, però, casi come questo sono più unici che rari. Nonostante ciò, siamo riusciti a riunire abbastanza materiale orale da farne una pubblicazione che si rifà più alla tradizione sabatina, quella che trae origine dall'area dei Maccabei, racchiusa fra i casali di Montefusco e del Partenio, per tornare in città da Ponte Sabato. Al centro della nostra attenzione è comunque l'uomo, più che Benevento, o se volete le donne, quelle con le loro illusioni nate per alleviare le sofferenze di ogni giorno, per dare colore a una vita spesso monotona e grigia. In epoche diverse, si sono avuti vari insediamenti umani: opici, sabelli, sanniti, romani, beneventani; ognuno dei quali, con una propria cultura, una propria religione, arricchendoci di usi e costumi non sempre comuni. Chi ci ha tramandato questa storia, fatta di riti, superstizioni, oltre che di avvenimenti, sono i vecchi. Ecco il vero capitolo, sconosciuto a molti, ancor vivo grazie alla memoria storica degli anziani della Valle Beneventana, ai paesi del 'Noce' che non c'è, alla... Rocca delle streghe. Riti magici, filastrocche, cattiverie e libri di magia nera, ma anche fatti accertati, che si rifanno a papi, re e briganti.